Mi è stato chiesto da dove derivasse il 𝒎𝒐𝒏𝒐𝒍𝒐𝒈𝒐 𝒔𝒖𝒍𝒍'𝑼𝒄𝒓𝒂𝒊𝒏𝒂 che ho avuto modo di leggere ieri sera durante la 𝑺𝒆𝒓𝒂𝒕𝒂 𝑪𝑶𝑵 𝑰 𝑪𝒂𝒎𝒑𝒊𝒐𝒏𝒊.
 
È "mio", anche se un buon pezzo, quello più interessante, è preso dal discorso di Adrew Parson durante l'inaugurazione dei Giochi Paralimpici. Volevo andare a "memoria", avendolo studiato in ogni parola, ma ho avuto paura di emozionarmi sul tema, come ho fatto comunque in un paio di passaggi.
La parte tra le quadre ieri sera ho pensato di ometterla perchè, senza il virgolettato, che faceva capire che era una citazione di canzone, poteva essere fraintesa: c'è ben poco da capire sulle ragioni in questo conflitto.

Il 4 febbraio a Pechino si aprivano i Giochi Olimpici invernali.

C’era poca neve attorno alla capitale cinese, ma il vento gelido che arrivava dal confine europeo si percepiva bene. Si sperava che, chissà, magari i Giochi potessero essere teatro per la diplomazia, ricoprendo quel ruolo che gli era stato affidato nell'antica Grecia, per essere poi riscoperto a fine Ottocento da De Coubertin, nel tentativo di sopire la polveriera che era il vecchio continente. Sicuramente la saggezza è negli atleti, come l’ucraino Abramenko e il russo Burov, che riprendono quattro anni dopo l'abbraccio presentato al mondo in Sud Corea.

Il 24 febbraio, appena il tempo di spegnere il primo braciere, ecco che a bruciare, e non dei valori etici dello sport, sono Mariupol, Odessa e altre città delle quali non avremmo certo voluto imparare i nomi così. Abramenko non ride più sulla neve ma è sempre protagonista di un abbraccio, che ora però racchiude la sconfitta dell'Uomo: quello nel quale protegge suo figlio mentre, nascosto nei rifugi di Kiev, implora che non si vada più a fondo di così.

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["Io non lo so chi c’ha ragione e chi no", se altre volte ci siamo voltati dall’altra parte e se la verità non è mai assoluta], le parole più “giuste” finora udite dall'inizio delle ostilità le pronuncia il 4 marzo Adrew Parson, Presidente del Comitato Internazionale Paralimpico, che, riaccendendo il fuoco a Pechino, davanti alle telecamere di tutto il mondo e in barba ad un discorso programmato con le autorità cinesi, stravolge tutto affermando che "sono inorridito da ciò che sta accadendo nel mondo in questo momento. Il 21° secolo è un'epoca di dialogo e diplomazia, non di guerra e odio. Aspiriamo a un mondo migliore e più inclusivo, libero da discriminazioni, libero dall'odio, libero dall'ignoranza e
libero dal conflitto. Qui a Pechino gli atleti gareggeranno tra loro, non l'uno contro l'altro. Attraverso lo sport metteranno in mostra il meglio dell'umanità ed evidenzieranno i valori che dovrebbero essere alla base di un mondo pacifico e inclusivo. I paralimpici sanno che un avversario non deve essere un nemico e che uniti possiamo ottenere di più, molto di più. Stasera il Movimento Paralimpico invita le autorità mondiali a riunirsi, come fanno gli atleti, e promuovere la pace, la comprensione e l'inclusione. Il mondo deve essere un luogo di condivisione, non di divisione".
 
Dovremmo tenere sempre a mente queste parole di Parson, perché sono l’essenza di cosa lo sport deve promuovere ogni giorno e di quanto può essere cardine di un vero cambiamento, basato su lealtà, rispetto, solidarietà ed inclusione.
 
Le associazioni sportive, ancora scosse da anni di grande difficoltà, non ci hanno pensato due volte a mettersi in moto per questa emergenza, ognuna nella misura in cui poteva: sensibilizzando l’opinione pubblica, accogliendo i bambini arrivati dall’Ucraina, diventando punti di raccolta di generi di prima necessità da spedire o anche da portare direttamente al confine, con i pulmini logori da mille trasferte. Perché nello sport vero la “mano tesa” per aiutare chi è in difficoltà è la prima regola.
 
PACE, PACE, PACE.
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